Il 10 Aprile 1436 i capimastri dell'arte di dipintori, nella fase nella fase de riordinamento di tutta la corporazione, presentano un certo numero di ordinanze, che vengono ratificate dai Giustizieri Vecchi, organo preposto alla vigilanzasuwle arti e mestieri.
A questa data, a detta del Grevembroch, inizia la professione dei "maschereri" o "mascareri" con un proprio statuto.
La richiesta del mercato, in ampia espansione, doveva aver orientato un gruppo consistente di artigiani verso una professione ben avviata e con una crescente domanda.
Un documento, conservato al Muse Civico Correr di Venezia, registra, tra 1530 e il 1600, undici iscritti all'arte dei dipintori can a fianco la dicitura: "mascherer", fra cui compare pure una donna, Barbara Scharpetta.
Affiancati nell'esercizio dell'arte anche dai "targheri", questi artigiani si industriavano a creare "volti" nuovi usando, oltre alla carta pesta, fine tela cerata e, come sottolinea il Grevembroch, "studiano l'industria di ridurli trasparenti, e ben forati negli occhi, onde farne maggior consumo, non solo in Venezia, che per tutta l'Italia".
Chiaramente doveva essere una professione comune e assai diffusa, molto più di quello che si può dedurre dalle stime apparenti, infatti Tomaso Garzoni la registra con un'ampia scheda nella Piazza universale di tutte le professioni del mondo.
L'autore non nasconde la sua più che totale disapprovazione nei confronti della maschera, frutto del maligno, inventata con la nascita stessa dell'uomo e ricorda il serpente tentatore che convinse Eva a commettere il peccato che costò assai caro all'umanità, ma quello che più sorprende non sono certo le citazioni bibliche, ma il fatto che Garzoni estenda la sua nota di biasimo anche a tutta l'intera professione considerata "dissoluta et vena".
La maschera, però, sempre secondo il "buon suddito" Garzoni, in mezzo a tante nefandezze possedeva qualcosa di buono: era utile ai fini politici.
Non hanno le maschere in loro altro di buono, se non che i Principi con maggior sicurezza, e libertà possono andare in volta, e notar con gli occhi proprij i portamenti dei for sudditi, intender l'opinione, che versa di essi appresso al popolo, sentir le lodi, o i biasimi, e così corregger se stessi e loro da quel, che non sta bene.
Ma la voglia di "perdersi", di smarrire la propria soggettivitàvera nel veneziano molto più forte dei freni inibitori della morale e la innumerevole congerie di travestimenti è la testimonianza più vera di una irrefrenabile comune volontà di libertà, che riconquista la perdita d'identità in un "diverso" collettivo, in uno sfogo generale di allegria che esorcizza i guasti e i mali provocati dalla Storia.
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